Riportiamo un articolo di LUCIANA CASTELLINA pubblicato su Il Manifesto
I nostri
padri hanno parlato e straparlato. Allora si fumava, tutti e ovunque, e intanto
si discuteva, ci si scontrava, si litigava; e però si inventava anche un mondo
diverso. Perché ciascuno aveva un'idea che pensava (o pretendeva) fosse
possibile condividere, renderla comune in nome di un soggetto collettivo che avrebbe
potuto trasformarla in concrete conquiste. Poi, si sono ammutoliti. Perché
ciascuno ha preso a pensare solo a sé stesso, e per rivolgersi a sé quando non si
ha più voglia di rivolgersi all'altro, parlare non serve. Non viene più voglia
di farlo neppure con i propri figli. E, in definitiva, nemmeno con sé stesso. Questo
il punto da cui parte l'ultimo libro - Il silenzio del noi (Mimesis, pp.
90, euro 8) - di Niccolò Nisivoccia. Come è arrivato questo silenzio, quando e
perché? Quando - scrive - i nostri padri, la generazione precedente a quelle
giovani di oggi, hanno smesso di interessarsi alla parola dell'altro. E forse
anche di fare la fatica di pensare all'altro.
LA DATA, per
l'autore, è la fine degli anni '70, quelli del “decennio Rosso”, quando le cose
hanno cominciato ad andare in una direzione opposta a quella che i più si erano
aspettati. Traduco nel modo che mi è più consono: è accaduto quando coloro che
avevano parlato molto hanno subito una sconfitta epocale, e la controffensiva è
arrivata più violenta di quanto ci aspettassimo, accompagnata da una
globalizzazione che ci ha spaesati. I pensieri lunghi di cui si nutre il
pensiero politico, quello che coinvolge l'altro, si sono improvvisamente
accorciati lasciandoci impotenti. E senza più la forza, la fiducia necessarie a
sentirsi collettività. Solo un isolato e perciò smarrito essere umano. Quando
la politica, delegittimata, si svuota di senso il rimuginio sulle sconfitte
subite non si socializza, resti solo con te stesso, il noi diventa
impraticabile. È così che il nostro io, ferito, ha cercato uno scampo in un'altra
idea di sè: un individuo che si compiace ormai solo di appagare i privati
bisogni del proprio io. Per se stesso e basta. Non si è trattato, io credo, di un'evoluzione
consapevolmente vissuta, ma della vittoria di chi aveva interesse a indurre
tutti a non credere più che il mondo possa esser cambiato. È su questo che,
come dice il titolo di un libro di Vincenzo Paglia che Nisivoccia cita, si è
verificato Il crollo del noi. E così le nostre parole hanno cominciato a
rappresentare solo noi stessi, rendendo superfluo usarle per una comunicazione
con l'altro che non faceva ormai più parte della nostra vita. Da soli, come è
ovvio, il mondo non si cambia, e vince la paralizzante sigla che domina ormai
il nostro tempo: “TINA”, There Is No Alternative.
Quando la politica, delegittimata, si svuota di senso si resta soli con sé
stessi. E
però il silenzio che ne è derivato non è tutto uguale. Può esser vissuto come
fuga, imbarazzo, doloroso senso di impotenza. Oppure - suggerisce Niccolò - come
tempo di una necessaria riflessione, ripensamento critico. Nel silenzio non si
parla, è vero, ma si può ascoltare. Che è meglio, perché ci evita il fastidioso
cicaleccio di chi cerca di coprire la propria sconfitta. IL RITIRO nel proprio silenzio può
anche essere un tempo di ricerca in cui, al riparo di un inutile rumore, si
cerca la strada per rianimare il dialogo. Per il quale prima di tutto occorre
fare spazio all'altro sé da poter intercettare le sue parole. Per ritrovarlo.
Per accoglierlo. Ci può, insomma - ci dice questo libro - essere un silenzio che
non vuole rimanere tale, ma solo un transito necessario, il luogo dove potremmo
cominciare a ricostruire un “noi”.
Tutto giusto,
ma avverto un pericolo: che anziché diventare “dialogante” questo silenzio
possa diventare la convinta scelta che liberarsi del noi rappresenti il
sacrosanto primato dei diritti dell'individuo. Una convinzione dilagante,
vissuta come una conquista. Come la liberazione dagli obblighi che il noi ti
impone. Confesso, per questo, il mio fastidio quando, come accade sempre più
spesso, si dice la parola “diritti” per indicare le nostre rivendicazioni.
Perché la parola è ambigua: diritti per chi? Non siamo tutti uguali, come
spesso, salvo nella nostra magnifica Costituzione, le leggi pretendono. Non solo
per via dello status sociale, ma ben di più per quello di genere, muoversi
immaginando che esista un soggetto neutro è una truffa. L'io, che non a caso è stato
originato dalla sconfitta della politica e dunque della democrazia di cui il
noi come espressione della collettività, del «comune», è la base, viene oggi
stimolato a restare tale, non dialogico come indica Niccolò. Diventa un modo
per togliere di mezzo le parole che invocano il noi e liberare finalmente l'io dalle
costrizioni che questo impone. Quella che suppone una idea di
libertà che non costringe più a fare i conti con la libertà degli altri.
UNO DEGLI ULTIMI NUMERI di Alias ha dedicato molte pagine a Rocco Scotellaro, il poeta-contadino mitico sindaco di Tricarico morto appena trentenne di cui fra poco ricorrerà il centenario dalla nascita. I suoi scritti, così riscoperti, mi sono sembrati un intervento nella nostra discussione. Cui ha aggiunto un'altra considerazione: le parole, dice, restano di per sé vuote se non sono accompagnate dal fare, e cioè dalla lotta per cambiare questo mondo. Di sé stesso Rocco, che era tutto noi, dava di sé una bella definizione: “Sono uno degli altri”, diceva. E questo è il punto oggi - aggiunge Michele Fumagallo nel suo articolo su Alias - come invertire la logica solipsista di una società che ha smarrito da tempo le grandi narrazioni sociali. A Tricarico, come altrove, questo è il problema. Ritrovare l'altro, dunque, ma anche rimettere le parole in rapporto col fare che spesso propongono ma senza impegnarsi a dar loro un seguito reale. E perciò, pur comprendendo la proposta di star zitti per un po', sento l'urgenza di aprirmi uno spazio nel silenzio che ci circonda gridando che non si può aspettare, bisogna che tutti riprendano a parlare e subito, affinché tutti si rendano conto che servono parole e fare collettivi perché ritrovare il noi è indispensabile a cambiare il mondo. Cambiarlo è urgente e indispensabile. Non abbiamo molto tempo. E mi piacerebbe che riuscissimo a imparare ad ascoltare anche quando parliamo, e, anzi, di più: concedersi pause di silenzio anche quando stiamo litigando. Perché se si parla si litiga inevitabilmente e troppo spesso non si riesce a trasformare il confronto in dialogo.
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