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DISERTARE LA GUERRA

 



Intervento di Paolo Cacciari al laboratorio politico residenziale promosso dal Centro Studi Economico Sociale per la Pace di Pax Christi a Camaldoli dall’11 al 13 ottobre (titolo Per uscire dalla Guerra, partire dalla speranza e non dalla paura). 


Sulla scia dei lavori di Brancaccio, Lucarelli e altri, abbiamo tentato di usare un metodo di analisi marxista dei conflitti in corso, concludendo che: “capitale è guerra”. La guerra è consustanziale all’economia di mercato. La ricerca dei “vantaggi competitivi” (vedi i rapporti di Draghi e di Letta, ascolta Ursula e Giorgia … ascolta chiunque sia messo a capo di qualche potere) è diventata il culto della religione della crescita economica. La competizione come principio universale delle relazioni sociali, per l’egemonia e il predominio economico conduce inevitabilmente al confronto militare e all’uso delle armi. Il mito liberale di stampo illuministico (Voltaire, Montesquieu, Kant… fino a Keynes e agli Economisti per la pace), secondo cui il “libero commercio” avrebbe pacificato i popoli, ha avuto un apparente momento di conferma dopo la caduta della cortina di ferro, quando ci veniva detto che la liberalizzazione dei mercati e dei capitali (neoliberalismo) avrebbe portato (prima o poi) pace e benessere per tutti, secondo la teoria dei “vasi comunicanti” o dello “sgocciolamento” della ricchezza (trickle-down effect) dai paesi più ricchi a quelli “in via di sviluppo”. In realtà abbiamo visto (già con la prima guerra del Golfo, 1990) come la globalizzazione sia stata una colossale operazione neoimperialista, di ricolonizzazione del sud del mondo (attraverso il debito, l’esproprio e l’accaparramento delle risorse naturali), favorendo un processo di concentrazione, centralizzazione e finanziarizzazione del potere economico attorno a poche compagnie transnazionali ben localizzate negli Stati Uniti (vedi i rapporti del Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Gesualdi). Pochi Ceo (amministratori delegati e manager, Davòs) decidono la dislocazione della divisione internazionale del lavoro, e controllano le catene di creazione del valore economico. Le democrazie nazionali e le istituzioni internazionali vengono completamente scavalcate. Meglio sarebbe dire: completamente asservite alle volontà dei centri di potere economico. Personaggi squallidi come Elon Musk vengono omaggiati e ricevuti come capi di stato. Le colossali, immorali diseguaglianze nel possesso delle ricchezze non sono che una conseguenza della vittoria del capitale. Una marcia trionfale dell’avidità e della prepotenza che però ha aperto contraddizioni interne e resistenze esterne: crisi finanziarie (bolle speculative a ripetizione), crisi ecologiche (a partire dal riscaldamento globale), flussi migratori, tentativi di autonomizzazione dei paesi esclusi dal club del G7 (BRICS).

Il riarmo, la militarizzazione interna (capitalismo della sorveglianza), l’autoritarismo (nuovi tipi di nazionalismo revanscista, neofascismi) hanno sciolto come neve al sole la narrazione della globalizzazione buona.

Sappiamo tutto questo e vediamo con piacere il declino dell’impero statunitense (nella speranza che al suo posto emerga un multilateralismo davvero equilibrato, fondato sulla reciprocità degli interessi). Ma allo stesso tempo ne siamo terrorizzati. Prima di dover dismettere una sola base, la Nato tenterà l’impossibile. Prima di dover rinunciare al dollaro come mezzo di pagamento negli scambi internazionali, gli Usa scateneranno la fine del mondo. I super-ricchi, al vertice della piramide sociale, prima di rinunciare ai loro immorali privilegi di classe, faranno terra bruciata attorno ai loro ghetti dorati. La nostra angoscia poi cresce ancora di più immaginando che la Cina potrebbe ragionare in maniera speculare agli Stati Uniti. La crescita della spesa militare cinese è impressionante: 400 per cento in più solo nell’ultimo anno.

La tentazione dei generali – di qualsiasi parte – di trovare una soluzione militare alla crisi delle relazioni internazionali è irresistibile.

Tutto questo lo sappiamo. E, penso, lo sappiano tutti. Le guerre, al fondo, sono il portato ultimo di una logica di dominio e sopraffazione; di una volontà di potenza portata alle estreme conseguenze. Come diceva Rosetta Placido lo scorso anno, ricordiamoci che le guerre esistevano anche prima del capitalismo. Il capitalismo le ha “solo” industrializzate, usandole come potente acceleratore dell’innovazione tecnologica, secondo il tragico motto schumpeteriano della “distruzione creativa”.

Facciamoci, però, una domanda – che a me sembra quella fondamentale per capire cosa noi dobbiamo fare. I generali e i loro governi non potrebbero fare le guerre se non avessero il consenso o, quantomeno, il tacito lasciapassare delle popolazioni. Non mi pare di aver visto uno sciopero generale contro la scala mobile al 2% sul Pil per le spese della Nato! Nemmeno indignazione. Eppure, la questione è spaventosa, se si pensa che contemporaneamente si taglia la sanità e l’istruzione. Diciamocelo con sincerità e onestà, ciò vuol dire che nel “sentire comune” della gente la “sicurezza” viene prima di ogni altra necessità e, per di più, deve essere armata.

Se vogliamo davvero che il movimento contro le guerre e per la pace accresca il suo peso, dobbiamo quindi lavorare per spegnere il “furore bellico” che attraversa la nostra epoca. Per riuscirci dobbiamo prima di tutto capire come è possibile che ciò avvenga.

Bernard Russel (1943) si rattristava nel vedere “popolazioni esaltate nel momento in cui scoppia un conflitto”. Domandiamoci allora quali sono i motivi che portano un individuo non dico ad arruolarsi e a diventare un assassino, ma anche solo a parteggiare per una o l’altra frazione armata. I meccanismi della costruzione del nemico sono molti, ne indico due.

  1. L’identificazione delle persone con il proprio clan, con la propria etnia, con la propria nazione, con la propria patria, con la propria chiesa… con il proprio ordine sociale e simbolico percepito come “il bene” collettivo da difendere sempre e comunque. Ha scritto Paolo Rumiz: “La parola più tragica del secolo scorso – “nazione” – torna in auge per fare altri disastri”.
  2. Il pregiudizio che gli “altri da sé” (gli stranieri) siano “naturalmente” potenziali avversari, mossi da interessi contrapposti, nemici pronti ad invaderci, da cui doversi difendere. Da ciò nasce la psicosi della minaccia e la sindrome dell’assediato.

In questo brodo culturale la chiamata alle armi da parte degli imprenditori dell’odio è un gioco da ragazzi. Il repertorio delle giustificazioni delle guerre è lungo. Basta far credere che vi sia un “pericolo esistenziale” per la propria parte ed ecco che la guerra diventa “giusta”, persino “santa”, quindi necessaria e giustificata, ancora prima che esploda. Ha detto Meloni il giorno di Pasqua in visita al contingente militare italiano in Libano: “La pace è soprattutto deterrenza e impegno, sacrificio”. Così la pace, nelle politiche di potenza, si rovescia nella morte. Papa Bergoglio all’Arena di Verona l’estate scorsa ha invece detto: “Non rispondere al male con il male”. È una frase di Tolstoj, a cui forse bisognerebbe cancellare la scomunica. Ma, per essere coerenti – mi permetto di dire – bisognerebbe anche ritirare i cappellani dall’esercito. I preti con le stellette non fanno bella mostra di sé. Buona vita!

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