L’uomo è un
essere desiderante. Ha bisogno di volare col pensiero oltre qualsiasi limite,
ha bisogno d’immaginare, ha bisogno di sognare. Questo è il segreto per la sua
felicità altrimenti resta solo un animale votato alla nuda sopravvivenza. Ma
tutto passa attraverso la coscienza della sua posizione nella complessità del
reale, ovvero nell’abbandono di ogni presunzione di potenza.
Ragioniamo:
l’uomo è un accidente per caso capitato in un piccolo pezzo di roccia che gira,
insieme ad altre rocce, intorno a una stella piccolina che a sua volta, insieme
ad altre stelle, gira intorno al centro della Galassia. “Le stelle sono milioni
di milioni” diceva una canzone piuttosto bruttina, ma no, solo nella nostra
galassia ce ne sono miliardi e non milioni e tutte, o quasi, hanno tanti pezzi
di roccia come la nostra Terra che girano loro intorno. E di galassie ce ne
sono miliardi di miliardi nell’Universo. Non è difficile, quindi, immaginare
che ci siano altri miliardi (forse di miliardi) di rocce che ospitano esseri simili
a noi (magari con dieci gambe, tre teste e la pelle azzurra o a pois, ma questo
è ininfluente). Quindi che senso ha la nostra presunzione di potenza? Nessuno,
ci pare. Noi rispetto all’Universo siamo un elemento insignificante. Anche se
restringiamo lo sguardo alla nostra Terra vediamo che l’uomo è uno dei tanti
esseri viventi (le piante, i fughi, gli animali) e nemmeno il più importante. E
tutti gli esseri viventi sono in relazione tra di loro altrimenti non potrebbero
esistere (siamo un unico bioma). Un’intelligenza aliena che venisse a visitarci
direbbe che questo è il pianeta degli insetti e non degli umani. Magari direbbe
anche che in questo pezzo di roccia la vera società che si è sviluppata nel
tempo è quella delle formiche o delle api (perché ha retto per milioni di
milioni di anni grazie al suo carattere cooperativo) e non la nostra. Insomma
noi, come società degli umani, rispetto alla vastità della natura non contiamo
niente, figuriamoci l’individuo, diventato vero moloch della società contemporanea!
Basterebbe un sasso(lino) di pochi chilometri di diametro che cada sulla Terra
(e ce ne sono una miriade in agguato) e noi… spariremmo in un istante, puff. E
allora che senso hanno l’Occidente (o l’Oriente), la Nazione, la famiglia,
l’Individuo? Che senso hanno la guerra, lo sfruttamento, l’arricchimento
personale, la competizione? La letteratura di fantascienza, che da sempre ha
avuto la capacità di coltivare l’Utopia, parla sempre di un’unica società degli
umani che vivono sulla Terra (e persino con un unico Governo, pensate un pò) e
così in qualsiasi altro pianeta dell’Universo dove esiste una civiltà. La
coscienza del posto dell’uomo nella realtà è la base da cui partire per
sviluppare qualsiasi altra riflessione. È da lì che bisogna cominciare a
immaginare.
Restringiamo
ancora il campo e veniamo alla società degli umani. “Se l’aspirazione a una società diversa, alla fine dell’ottocento, si
collocava esclusivamente al centro del conflitto di classe, ora si viene
caratterizzando anche come risoluzione di quel rapporto sempre più problematico
tra uomo e natura”, queste sono le parole di un intellettuale arguto
(nonostante la sua veneranda età) che portano verso una maggiore consapevolezza
delle interdipendenze globali. Oggi il sistema di sviluppo della società umana
(capitalistica) basata sulla produzione intensiva privatistica (vale a dire sul
profitto) porta verso una distruzione totale dell’ambiente in cui è collocato e
delle sue essenziali relazioni (che non hanno frontiere) e quindi verso una
prevedibile estinzione dei sapiens (riscaldamento globale, pandemie,
distruzione dei grandi polmoni vegetali della Terra). Non certo dell’intero
pianeta, però, perché questo sa bene come reagire bensì dell’umanità e degli
altri esseri viventi. Altro che potenza! E allora la nostra capacità di
immaginazione deve contemplare un mondo nuovo dove uomo e natura vivano in un
rapporto non conflittuale e dove vengano curate e salvaguardate tutte le
relazioni tra i vari soggetti del vivente e dei territori. Questa
consapevolezza della modernità si deve coniugare, ormai obbligatoriamente, con
la nostra capacità di immaginare una società di uguali in cui tutti possano
essere felici.
Questo
è un compito difficile per chi, come noi, non può permettersi di trascurare, a
cuor leggero, la complessità. “Si tratta
di saper coniugare la ragione e il sentimento. E l’unico modo per farlo sta
nella coerenza dei comportamenti ritornando a scaldare i cuori con l‘Utopia del
possibile”, dice sempre l’intellettuale di cui prima. E già. L’Utopia sta
proprio nel negare l’Utopia, nel farla diventare, quindi, possibile nella testa
e nei cuori degli uomini attraverso una prassi sociale e una battaglia
culturale capace di mutare radicalmente nei nostri pensieri i rapporti tra “individualismo e solidarietà, individuo e
comunità, dove la competizione selvaggia, il bullismo sociale del successo e
l’ideologia rapace del Capitale
lasciano il posto a una più alta e più umile percezione del destino degli umani”.
Siamo convinti: serve una battaglia permanente, poetica e teorica, per il
cambiamento radicale del modello attuale di sviluppo verso la possibilità concreta
di “società altre” (società di pari), comunque queste le si voglia chiamare
(chiamiamole Giovanni se proprio socialismo o comunismo adesso ci spaventano). Come
si può ancora credere al modello di sviluppo del Capitale basato sulla capacità
di autoregolamentazione del mercato? Come si può pensare che la ricchezza così
prodotta “sgoccioli” automaticamente verso l’intera società producendo
benessere per tutti? Quelle gocce sono solamente gocce di percolato fetido che
scendono dalla discarica dell’accumulazione capitalistica. Sono diseguaglianza
e schiavitù. È solo elemosina, senza alcuna dignità. Dall’altra parte non ci
sarebbe niente di più sbagliato se continuassimo a pensare che gli uomini,
quelli a cui ci rivolgiamo, ragionano con la pancia e il portafoglio invece che
con il cuore e i desideri. “Il mero
pragmatismo è una lobotomia dell’anima, è contro natura”. La concretezza
dei bisogni e i percorsi per soddisfarli (le lotte) acquistano senso solamente
se inseriti all’interno di una dimensione ideale desiderante ovvero all’interno
di un idea di mondo che ribalti completamente l’esistente e delinei un mondo
nuovo in cui tutti possono praticare la propria felicità. Siamo realisti
chiediamo l’impossibile!
Ma
oggi il Capitale ha colonizzato anche i desideri. Con il suo apparato egemonico
è entrato nell’animo e nelle menti degli umani creando falsi bisogni e altrettanti
falsi valori istituendo ritualità e strumenti d’appartenenza che non
corrispondono alla collocazione sociale. Pertanto è ancor di più fondamentale
procedere a un processo di disvelamento della realtà che parli al sentimento.
Occorre, quindi, rimettere al posto giusto i valori fondamentali su cui deve svilupparsi
una società più equa e solidale: la comunità al posto dell’individuo, uguali
possibilità per tutti al posto del merito, la collaborazione al posto della
competizione, l’uguaglianza al posto dello spirito rapace, la spartizione al
posto dell’accumulazione e del profitto, il rispetto ambientale al posto della
distruzione delle risorse, la felicità al posto dell’alienazione. È un sogno?
Certo ma è un sogno che può diventare progetto purchè ricominci a vivere nella
mente e nei cuori degli umani riconquistando il proprio posto nell’orizzonte
del possibile. E a noi, che operiamo nel mondo della letteratura, spetta un
compito importante: dare parola ai sogni. Non è facile ma è questo che ci stimola
e ci compete. Occorre parlare del reale usando la fantasia, spingere i concetti
all’iperbole per renderli più evidenti, per depurarli dalle scorie di
mistificazione con cui il pensiero egemone e omologante vuole mascherarli. Noi
lo chiamiamo “realismo fantastico”, un’apparente antinomia mentre, invece, è l’unico
strumento capace d’andare fino al fondo del reale usando il linguaggio dell’immaginazione
e della poesia.
Commenti
Posta un commento