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SENZA UNA STELLA SOPRA LA TESTA



Di seguito pubblichiamo un articolo di Giovanna Vignato autrice del libro “Senza una stella sopra la testa” pubblicato da Edizioni del Mondo Offeso.

 

«Ma insomma di che cosa parla questo libro?».

«Be’, non so dirti proprio bene. Faccio fatica a dirtelo perché dopo averlo scritto è quasi impossibile dire di che cosa parla un libro. Leggilo che poi mi dici tu».

«Sì che lo leggo, dimmi solo se è uno di quei libri che parlano di niente, quelli che tu ne hai a decine».

«Sì sì, anche sì, se vuoi. Però, sai, sul niente bisogna intendersi. Non c’è un delitto, non c’è un’indagine, questo è certo. Non c’è nemmeno un messaggio forte, sai, come una volta si usava. Comunque c’è una storia, anzi sicuramente due. Sì, due, senz’altro. Forse di più».

«Vabbè, allora il niente su cui dovremmo intenderci me lo spieghi dopo. Intanto almeno due storie è già qualcosa. Dimmi dov’è ambientato».

«Due posti. C’è una donna in una casa che racconta di un paesino di confine, e allora il primo posto è questo paesino. La prima storia si svolge quasi tutta in questo villaggio che essendo di confine è ovviamente fra due stati. Però nessuno degli abitanti sa bene dove passa il confine, perché il paesino sta quasi nei boschi, e nei boschi tu sapresti trovare dove sta un confine?»

«No, vero, non saprei proprio».

«E non ci pensi mai che la maggior parte dei confini di uno stato non lo sai bene dove stanno, a meno che tu non debba attraversarli? Mica c’è una linea per terra o nel mare».

«Sì, la maggior parte dei confini è proprio così, vero».

«E allora c’è questo villaggio e c’è questo confine invisibile, che oltre a non essere disegnato per terra sembra cambiare spesso nella storia senza troppo senso, e dunque gli abitanti di questo villaggio, per non confondersi e per stare sicuri di essere quello che sono si affidano alla loro lingua. Una lingua bellissima, sai. Meravigliosa, vedrai. Solo che è una lingua che non si capisce troppo bene né in uno stato, né nell’altro».

«Cos’è, come un’isola linguistica?».

«Non so, loro comunque non se lo chiedono».

«È come una terra di nessuno?».

«Può essere vicino al vero, ma tu corri sempre avanti. Non precipitare le cose che poi il libro non lo leggi più».

«Va be’, e cosa succede in questo villaggio?».

«In questo villaggio alla fine è rimasto solo un uomo che si chiama Pietro, e la donna che scrive racconta tutta la vita di questo Pietro, anzi la sua e anche quella dei suoi genitori. Pietro non era nato lì, ma lì ci stava benissimo».

«Ma la donna come fa a conoscere tutta la storia di questo Pietro e di questo villaggio?».

«È importante saperlo? Dimentica la tua domanda. Lei, la Luisa, ha una gran voglia di raccontarla, quella storia, questo è l’importante, dai. Arrenditi e basta. Ti dirò solo che racconta tutto per lettera».

«Per lettera o per mail?»

«Mail, va bene, non è così importante».

«A chi scrive?».

«A uno che lei chiama Bremen».

«E chi è questo Bremen?».

«Farai tu. È uno che risponde poco. La donna e questo Bremen si tengono cari, si sono scelti. Ti do tutto quello che so ma ti lascio libero di volare quando leggi».

«Basta che non sia un libro che parla di niente».

«Che noioso che sei. Per saperlo devi leggerlo. Adesso ascolta: questa Luisa che racconta del villaggio, nelle sue lettere racconta anche quello che fa in casa. Tipo che riordina il guardaroba, che trova etichette, bigliettini, parla con la donna che l’aiuta, cose così. È una casa grande, piena di oggetti che le sono stati affidati, sai quegli oggetti pieni di memoria, quelli che tieni perché devi, perché magari ti ricordano troppo qualcuno. E questo sarebbe il secondo posto in cui si svolge questo racconto. Mi segui? Uno è il villaggio, l’altro la casa piena di memoria. Mi segui?».

«Sì, vai avanti».

«A un certo punto a questa donna le succede una cosa. Non posso dirtela, se no non leggi più. E io voglio che tu legga».

«Va bene, mi fido».

«Beviamo qualcosa?».

«Beviamo, basta che sia rosso».

«Rosso sia».

«Allora a questo punto, dopo che le è successo quello che non ti dico, la donna è proprio in difficoltà. Sembra persa dentro una sua geografia disfatta. Nelle lettere non racconta quasi più del villaggio abbandonato. Dice invece che sta all’aria aperta e che cura il giardino. Un giorno al deposito sfalci conosce un ragazzo straniero che non parla in nessun modo l’italiano, la donna a stento capisce il suo nome e però gli chiede a gesti di aiutarla in certi lavori. Tu ne conosci di stranieri così, che non parlano per niente l’italiano ma vivono qui?».

«No».

«Io credo invece che ogni giorno ne incontri qualcuno. Solo che non lo sai che lingua parlano. Li incontri e non lo sai, li vedi e non li pensi, perché non sei curioso com’è curiosa la Luisa. Chissà, forse lei è curiosa perché ha raccontato così tanto del villaggio di confine e della sua lingua di mezzo. Fatto sta che quando il ragazzo comincia a lavorare per lei la Luisa si mette in attesa, cerca di capire questo ragazzo che rifiuta ostinatamente la lingua del paese dove vive, rigetta l’italiano».

«E allora come fanno a comunicare?».

«Versami da bere. Grazie. Come fanno, mi chiedi. Bella domanda. Versami ancora. Grazie. Comunicano perché c’è un momento in cui si ascoltano. In cui Luisa ascolta il ragazzo con tutta sé stessa. Fidati, è possibile. Succede. Se non hai le parole hai il corpo, un corpo intero che assorbe e risponde. Anzi risuona, oppure lampeggia, come succede a Luisa».

«Diventa matta?».

«In molti modi si dice il confine. In molti modi si attraversa. In molti modi si contiene».

«Fermati che diventi esoterica e stramba. Dimmi perché invece di fare, immagino, anche lei delle stranezze, questa donna non insegna per bene l’italiano al ragazzo. L’integrazione…».

«Ti ricordi Kaspar Hauser? Ti ricordi Il ragazzo selvaggio?».

«Anni Sessanta, Settanta? Morti tutti».

«Non per Luisa, non per me. Anzi. Lunga vita al ragazzo d’Europa. Lunga vita al ragazzo selvaggio. Sono tornati. Brindiamo».

«È il terzo».

«Appena sufficiente per quello che sto per dirti. Non sono mai riuscita a dirlo bene durante le presentazioni, forse adesso mi riesce. Io infatti sono molto soddisfatta quando posso riordinare in un discorso quello che penso. Quando posso afferrare con le parole i capi di un problema, sistemarlo e affrontarlo. Quando posso raccontare una storia con un inizio, uno svolgimento e una fine. Però per fare questo ho bisogno che le parole mi si attacchino bene alla realtà, giusto? Così posso anche agire sulla realtà, forse trasformarla».

«La lingua è uno strumento di potere, abbiamo speso una vita a rifletterci sopra. Di potere e di liberazione. “Un operaio conosce cento parole, un padrone mille, per questo lui è il padrone”, ricordi?».

«Ricordo benissimo. Con nostalgia anche. Ma spesso mi sono trovata davanti a un punto così oscuro che posso solo raccontartelo, non spiegartelo. Immagina di essere un ragazzo, un Kaspar dei nostri giorni, un ragazzo strappato alla sua vita. Ne abbiamo a migliaia qui in questa città. Immagina di dover imparare una lingua che non è la tua e di dover riprodurre suoni che non ti sono familiari, spostare la lingua in posizioni artificiose, sopra sotto di lato in fondo, chiudere e aprire le labbra, stringere o rilassare la mascella, chiudere o schiudere le labbra in questo o quel modo per riprodurre suoni che non senti veramente dentro di te, dei quali sarai per sempre insicuro, e tutto questo per dare un nome a oggetti e idee, per afferrarli e incorporarli, prima per necessità, ma poi per dovere. Dovere, tieni a mente. E pensa di dover ripetere questo esercizio per giorni e anni, finché la lingua non si sarà impossessata di te, cancellando quello che eri e facendoti diventare qualcuno che non sarai mai sicuro di essere: un uomo sociale di una società che non capisci, che non capirai mai fino in fondo perché semplicemente non è…».

«Scusa se ti interrompo ma ne stai facendo un dramma».

«È il vino forse. Volevo solo dirti che tutto lo “spietato esercizio”, come diceva qualcuno, che si nasconde nel imparare una lingua, questa umiliante assimilazione sistematica, ha qualcosa di profondamente crudele per alcune persone. Forse per quelle che sono più legate alla propria natura, o per quelle che ancora ascoltano senza la remora delle parole. E soprattutto per quelle che si rifiutano di cancellare attraverso una parola qualcosa che è come una chiazza bianca in un atlante. Questa espressione l’ho letta di recente, non è mia».

«Somiglia al titolo del tuo libro, Senza una stella sopra la testa».

«Somiglia molto, sì. Una chiazza bianca in un atlante. Qualunque parola è straniera davanti a una chiazza bianca in un atlante».

«È un po’ misterioso, più che capire lo vedo».

«Lo so, in fondo lo vediamo tutti ma ci affrettiamo a parlarci sopra. A disegnarci su. Forse a tirare quelle linee che chiamiamo confini. A cercare di afferrare».

«Non so se capisco, ma sento che hai molta fiducia che io possa farlo. Allora lo leggerò, grazie, così a occhio non mi pare che parli di niente. Però non dirmi come va a finire».

«No, non te lo dico».


Immagine: foto di Luciano Scarpa


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